Come da tradizione, lo scorso 20 maggio, il presidente del nazionale Istituto di Statistica ha presentato in Parlamento il Rapporto annuale, un volumetto che ogni anno da 24 anni sintetizza e analizza attraverso i dati la situazione del nostro paese. Affido a questa puntata alcune considerazioni a cascata in merito alla recente pubblicazione.
Uno: invecchiamo sempre più. Detto così sembra che ogni singola fascia d’eta della popolazione soffra di una qualche patologia di senescenza precoce, mentre invece si intende – ovviamente – che in termini demografici la popolazione è zavorrata dalle classi più vecchie. Questa prima considerazione è collegata ad una miriade di altri aspetti, e non si tratta necessariamente dell’ovvio peso sul sistema di welfare impresso dalle classi d’età che oltre a percepire una pensione hanno bisogno di cura e assistenza. Ma piuttosto:
Due: non esiste nessuna staffetta generazionale. Quando ero più giovane (e bello) ho sentito argomentare, e mi sono fatto quasi convincere, da un ragionamento semplice e accattivante: la crisi occupazionale dei giovani per risolversi richiede solo un po’ di pazienza, quella necessaria ad aspettare che un anziano liberi il posto andando in pensione. L’idea all’epoca era che i posti di lavoro fossero un numero fisso e determinato, non potendo aumentare e non potendo diminuire, non cambiando le mansioni e non evolvendo il mercato. E invece no, nessuna foresta pietrificata. Lo certifica proprio l’Istat, dalla quale apprendo che “mentre i giovani entrano soprattutto nei settori dei servizi di mercato (319 mila ingressi nei comparti del commercio, alberghi e ristoranti e servizi alle imprese, a fronte di 130 mila uscite), in altri settori le uscite non sono rimpiazzate dalle entrate (125 mila escono dalla Pubblica amministrazione e dall’istruzione a fronte di appena 37 mila in entrata)”.
Tre (come la terza I del famoso trittico ‘inglese, impresa, internet’): siamo il penultimo paese europeo per connettività e, secondo una simulazione dell’Istat, l’introduzione della banda larga in quelle zone del paese decentrate, e non raggiunte o quasi dall’infrastruttura telematica, migliorerebbe le condizioni di vita per le 250 mila imprese che su quel territorio sono impiantate al punto da determinare incrementi della produttività di 3.700 euro per addetto nell’industria, 4.000 euro nelle costruzioni e 8 mila nei servizi del commercio.
Quattro: piccolo continua ad essere bello. Nel paese più microimprenditoriale d’Europa, le aziende che meglio si sono comportate in termini occupazionali sono quelle sotto i 10 dipendenti, in particolare se guidate da imprenditori giovani. Unica controindicazione: non si indulga nell’entusiasmo da start-up, ché nel nostro paese c’è ancora moltissima strada da fare a riguardo.
Cinque: studiare fa bene, soprattutto alla salute. Secondo l’Istat, infatti, l’educazione ha svolto un ruolo protettivo in questi anni di crisi, sia perché un buon livello d’istruzione facilita la vita lavorativa (in termini di migliori e più facili opportunità di lavoro e di condizioni contrattuali più vantaggiose) sia perché studiare allunga letteralmente la vita: è stata infatti osservata una correlazione positiva tra titolo di studio e aspettativa di vita, in particolare per gli uomini: a 80 anni la quota di laureati sopravviventi è del 69 per cento, contro il 56 di chi ha al massimo la licenza media. Quindi si, è ufficiale, studiare non è tempo perso, semmai guadagnato.
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