Articolo conclusivo il reportage “Sfide Metropolitane”
Siamo arrivati alla fine? Esplorato il corto raggio dei paraggi, abbiamo conosciuto storie che non immaginavamo e visto luoghi che non sapevamo. Ed è bastato semplicemente fare un passo fuori dalla solita strada. In queste settimane abbiamo indagato poche tessere di un grande mosaico, e forse quel che abbiamo visto non proprio esaurientemente raccontato, ma, seppur consci che la letteratura non è nata per consolare gli afflitti, ci tiriamo su pensando al Marco Polo di Calvino, che ha raccontato a Kubilai i primi viaggi da ambasciatore ricorrendo alla pantomima, unendo all’occorrenza finzione e realtà, e per fantastiche città dai nomi di donna si è pure a volte perso.
Quel Marco Polo viaggiatore di Città invisibili la città metropolitana non esiste o, per restare in tema, è piuttosto parte delle città contenute nell’Atlante del Gran Khan dedicato alle “terre promesse visitate nel pensiero ma non ancora scoperte o fondate”. La città metropolitana non esiste e ne abbiamo le prove. Tanto a Montelupo quanto all’Impruneta o a Scandicci, non esiste un senso comune che possa dirsi il nucleo da cui prima o poi nascerà una identità metropolitana.
Si badi bene: non intendiamo con questo dire che nella città metropolitana le identità pregresse si annullano e tutti ne abbracciano una nuova di pacca, senza poter ricorrere però alla garanzia del soddisfatti o rimborsati. Tutt’altro. Se pensiamo solo un attimo ai modelli di grandi città metropolitane più facili da richiamare alla mente, come Londra, Parigi o New York, vediamo conurbazioni di enorme estensione che hanno al proprio interno una pluralità di identità molto ben definite e radicate nei territori, identità che non si sciolgono nel calderone dell’omologazione, ma sono i tanti mattoncini su cui si regge la super-identità di quelle città.
È all’integrazione di tutte quelle identità in un unico e riconoscibile brand che dobbiamo la fascinazione che proviamo quando pensiamo alle caleidoscopiche metropoli di cui sopra. Firenze no, non è New York. Soprattutto se ci ostiniamo a pensarla limitata ai suoi meri confini comunali. Però, se iniziamo a vedere Firenze sotto la lente della città metropolitana; se iniziamo a ragionare — come ci ha insegnato Silvia Viviani - non più per centro e periferia ma semplicemente per luoghi urbani animati da persone le cui vite attraversano, incuranti, i confini amministrativi; se pensassimo questi luoghi quali parti di un insieme eterogeneo, nell’ottica di una logica collaborativa e sinergica — come ci ha ben spiegato Marco Betti — senza più dover ricorrere alle compensazioni o alle riparazioni per torti estorti dal più forte al più debole; se, dicevamo, riuscissimo a proiettare questa immagine di città metropolitana, seppure abbozzata con mezzi relativamente poveri come i nostri, ecco, crediamo che la percezione del territorio, e delle tante ricchezze e identità locali disseminate su di esso, forse, potrebbe cambiare e diventare più attuale.
Ma come? Come stabilire una connessione tanto efficace nel creare un legame forte, e insieme gentilmente rispettosa dell’esistente? Un’idea ce la siamo fatta. Ascoltando le parole di chi non si aspettava di avere udienza ci è apparsa chiara una cosa: che si può riuscire a fare molto se si riconosce dignità a tutti, soprattutto a chi non credeva di avere diritto ad essere interpellato come un interlocutore.
Senza ora prendere derive sagomate su massime di vecchi saggi e guide spirituali, guardiamo alle esperienze concrete, tipo la tramvia, che dimostrano quanto i territori siano in attesa di essere riconosciuti e inclusi. Prima di addentrarsi nel discorso, forse giova fare una piccola permessa: la città è prima di tutto un luogo fisico, e come tale è tanto meglio pensata quanto più riesce a garantire accesso alle persone che la vivono. Di una città che respinge i propri cittadini o li segrega è facile immaginare il destino; di una che si modella sulle domande provenienti da chi ne anima ogni giorno le strade e le piazze pure.
E forzando la citazione con cui abbiamo iniziato, dice Marco Polo a Kubilai Khanal termine di uno scambio pregno di significati: d’una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che fornisce ad una tua domanda. Pensiamo sia questa la chiave giusta per leggere la realtà di Firenze, sia per quanto riguarda le settantasette meraviglie, che per la parte in cui si parla di domande e risposte.
La tramvia, dunque, ma più in generale le infrastrutture: se la città è un luogo fisico particolarmente esteso composto a sua volta di molti luoghi fisici più piccoli, una città intelligente è quella in cui i collegamenti tra i diversi posti sono mappabili, reti neurali che ne attestino razionalità e comprensibilità. Per questo abbiamo voluto parlare di Prato: perchè ci è sembrato razionale includere nel nostro reportage una città di duecentomila abitanti legata a Firenze da autostrade ufficiali e declassate, strade statali e provinciali, collegamenti ferroviari e flussi di lavoro che attraversano, innervandolo, il tessuto connettivo della piana posta nel mezzo
Un po’ meno razionale ci è sembrato che nell’ente città metropolitana tutto questo capitale sociale ed economico non abbia voce in capitolo. Ma infrastrutture non vuol dire solo linee di collegamento; infrastrutture significa anche un city airport per Firenze — e i suoi dintorni; infrastrutture vuol dire anche innovare e rispondere, quando si palesano, alle necessità di sostituzione dell’esistente.
Due esempi su tutti: lo stadio e il Polo Fieristico. Sul primo il dibattito è aperto ormai da anni e non si è giunti ad una conclusione chiara e men che meno condivisa: con il progetto attuale di trasloco della Mercafir in vantaggio c’è una soluzione con cui si affermerebbe una volta di più la logica per cui le decisioni vengono prese dal centro e sono imposte ad una periferia già oberata da un tribunale, un aeroporto, una uscita autostradale.
Per quanto riguarda il Polo Fieristico si tratta di un argomento meno presente nel dibattito pubblico, forse perchè ancor più difficile da trattare, ma proprio per questo ancor più vitale: data l’attuale dotazione di spazi, servizi e logistica, come si può tornare a competere per davvero nel giro che conta? Come si può ospitare eventi di importanza internazionale senza, intasando di taxi e mezzi di trasporto merci un chilometro di viali di circonvallazione, bloccare una città? Poi, ovvio, le infrastrutture sono solo uno degli strumenti, al cui fianco stanno le risorse che ha una città. Firenze, lo sappiamo, tra le proprie ne ha una formidabile, ovvero il turismo.
Ora, anche un lettore disattento sa, per averlo involontariamente appreso dai giornali, che i turisti in città aumentano di numero ma tendono ad accorciare la propria permanenza. Effettivamente, con un piano tattico di efficienza militare, in tre giorni di permanenza è possibile vedere più o meno quelle attrazioni che hanno creato il brand Firenze nel mondo. Ma se invece l’immagine della città fosse ampliata? Se invece la città metropolitana diventasse un unico grande polo d’attrazione coordinato, in cui includere le collezioni di arte contemporanea di Prato, le colline del Chianti, i sentieri appenninici o, per non fare nomi, la Villa Medicea dell’Ambrogiana di Montelupo? Nel nostro piccolo viaggio, infine, abbiamo incontrato anche delle creature che starebbero bene in un bestiario medievale: dei giovani che lavorano, a volte addirittura con successo.
Ecco, li citiamo solo per dire che dedichiamo a loro il nostro reportage: a loro che torna sempre comodo evocare ogni volta che ci si vuole pulire la coscienza; a loro che nelle occasioni che contano vengono sistematicamente dimenticati da sindacati, associazioni di categoria, politici e giornalisti; a loro che quando ci provano, spesso, per riuscirci devono superare ostacoli che starebbero bene accanto al catalogo delle dodici fatiche.
Un amico caro a tutti gli scriventi, quando iniziò il proprio percorso lavorativo via da Firenze, era solito fare una osservazione: Firenze è una città ancora medievale per come sta fieramente racchiusa tra le proprie mura, mura che da protezioni contro l’altrui offesa sono diventate invalicabili barriere psicologiche per chi ne è contornato. Per invogliare il pensiero non convenzionale e innovativo gli inglesi ricorrono ad una metafora, dicendo think outside the box; il nostro amico diceva pensiamo oltre le mura. Ecco, pensiamo oltre le mura.
E’ possibile leggere le 14 tappe del viaggio su Medium a questo indirizzo:
https://medium.com/@SfideMetropolitane
Oppure sul sito de La Nazione:
https://www.lanazione.it/firenze/cronaca/citta-metropolitana-1.1536356
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